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La quarta nazione al mondo. Ecco quanto consuma il web.

La quarta nazione al mondo. Ecco quanto consuma il web.
La quarta nazione al mondo. Ecco quanto consuma il web.
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È alle spalle di Cina, Stati Uniti e India in fatto di emissioni. Dalle mail allo streaming, abbiamo calcolato in dettaglio l'impronta di CO2 della nostra vita digitale. Fra nuovi processori, uso dell'intelligenza artificiale, algoritmi per ottimizzare i video e data center alimentati da eolico e solare, ecco cosa sta accadendo dietro e quinte per rendere più sostenibile la Rete

"Stimare quel che accade, con precisione, è il primo passo per migliorare la situazione. E noi non lo stiamo facendo". Yoshua Bengio, in collegamento da Montreal, lo dice senza girarci troppo attorno. L'informatico parigino d'adozione canadese, Premio Turing nel 2018 per le sue ricerche sull'intelligenza artificiale, sta vedendo crescere a dismisura l'uso del mondo digitale e degli algoritmi senza che nessuno si chieda quanta energia assorbono e quanto gas serra producono. "Quantità enormi, con buona probabilità", prosegue Bengio. "Per averne un'idea e per arrivare a una qualsiasi possibile regolamentazione, bisogna iniziare a misurare".

E' nata così l'idea di CodeCarbon, sviluppato nel suo Montreal Institute for Learning Algorithms (Mila), assieme Bcg Gamma, Haverford College e Comet. Un software opensource leggero e ovviamente gratuito che una volta scaricato stima l'impatto ambientale mentre si sviluppano software e sistemi di apprendimento delle macchine, stabilendo quanti processori si usano e stimano in base alla zona nella quale ci si trova se si sta usando o meno energia da fonti rinnovabili.

"Non ci sono standard per tracciare il consumo di energia nel software", prosegue l'informatico. "Le stime sono solo generiche. Nessuno sa davvero quando il digitale consuma in maniera precisa, dai singoli computer che usiamo a casa ai data center dai quali arrivano tutti i ostri servizi digitali. Abbiamo solo idee vaghe".

La quarta nazione al mondo.

Idee vaghe ma con un ordine di grandezza che è da nazione di primordine in fatto di inquinamento: più del Giappone e meno dell'India. Il Web, fra gadget hi-tech, server e algoritmi, entra a pieno titolo nella classifica dei Paesi più importanti in fatto di CO2. Ne produrrebbe circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all'anno. Significa 400 grammi per ogni utente di Internet. Volendolo inserire nella graduatoria elaborata dal Global Carbon Project, il Paese del digitale si piazzerebbe al quarto posto dopo Cina, Stati Uniti e appunto India stando alle stime. Insomma, l'uso o l'abuso di social network, videochiamate, chat e videogame online ha una sua impronta di carbonio non marginale, un mondo che assorbe un'enorme quantità di energia. Solo lo streaming video arriverebbe a circa 300 milioni di tonnellate, più di quanto faccia la Spagna.

In Inghilterra hanno calcolato ad esempio che se la popolazione prestasse più attenzione alle email, evitando di inviare quelle che non sono necessarie dove magari c'è solo un "grazie", equivarrebbe al togliere dalle strade 3.300 macchine diesel. Ma è ovvio che il grosso non arriva dalla posta elettronica, anche se bisogna moltiplicare per gli oltre quattro miliardi di persone che oggi usano Internet e ricordando che di media ogni utente riceve tremila messaggi fra sottoscrizioni email indesiderate. La parte maggiore del danno lo fanno i computer, da tavolo o portatili, e gli schermi che si prendono circa il 40 per cento dei consumi. E poi server e data center, l'infrastruttura del Web, che valgono un altro 30 per cento. Secondo la Lancaster University, considerando tutti i gadget digitali che usiamo e aggiungendo Internet, si arriva al 3,7 per cento delle emissioni di gas serra nell'atmosfera che ammontano in totale a circa 50 miliardi di tonnellate cubiche. La tecnologia che ruota attorno alla Rete, ha lo stesso peso del traffico aereo quando era a pieno regime lo scorso anno.
Il Web però ha una capacità che gli altri Paesi non hanno per far fronte all'aumento costante dei volumi mantenendo i consumi costanti. Ci stanno lavorando tutti i grandi colossi del digitale non solo o non tanto per la sensibilità ai temi ambientali, ma per un mero calcolo economico: conviene.
"Puntare all'efficienza e al risparmio energetico riguarda ogni aspetto della tecnologia", spiega da Londra Andrew Buss, analista della Idc. "Basti pensare a quei processori che, secondo i compiti che svolgono, ormai spengono autonomamente le parti che non servono. In generale è una di quelle frontiere nelle quali si stanno concentrando le innovazioni più importanti, anche quelle che tocchiamo quotidianamente: oggi con uno smartphone puoi registrare un video ad altissima risoluzione senza esaurire la batteria. Qualche tempo fa sarebbe stato semplicemente impossibile".
Negli ultimi dieci anni, quindi, l'assorbimento di corrente è stato affrontato con una serie di accorgimenti tecnici e con l'uso massiccio di intelligenza artificiale per capire dove intervenire in maniera chirurgica. Il problema però è che cresce di continuo anche il traffico dati e aumenta la necessità di elaborarli. "E non c'è alcuna trasparenza su quel che accade", sottolinea Sylvain Duranton, a capo di Bcg Gamma, la divisone del Boston Consulting Group che lavora sull'analisi dei dati. "Ci sono aziende che magari della tecnologia che magari fanno grandi passi avanti verso l'impatto zero ma poi usano enormi risorse di calcolo senza badare alla loro ottimizzazione. Certi algoritmi se fatti operare in una certa maniera possono ridurre l'energia necessaria di dieci o quindici volte".

Il lato ambientalista dell'sms.

Tutto quel che facciamo online ha una sua conseguenza in termini di diossido di carbonio. Scegliere di inviare un sms è forse la via più rispettosa dell'ambiente per rimanere in contatto con gli altri, ogni messaggio genera solo 0,014 grammi di CO2. La Bbc stima che un tweet abbia invece un'impronta di 0,2 grammi mentre l'invio di un messaggio tramite un'app di messaggistica come WhatsApp o Facebook Messenger produrrebbe una quantità di carbonio leggermente inferiore all'invio di una mail che è di quattro grammi. Parliamo di una media, perché molto dipende dipendere da quel che si invia: gif, emoji e immagini hanno un'impronta maggiore rispetto al testo e la differenza è sensibile. Se si allega una foto si arriva infatti a 50 grammi.
L'impronta di carbonio di una telefonata di un minuto è invece di poco superiore rispetto all'invio di un sms, le videochiamate ne hanno una molto più grossa. Uno studio del 2012 ha stimato che una riunione di cinque ore in videoconferenza tra partecipanti di diversi Paesi produrrebbe fra i quattro e i 215 chili di CO2. Bisogna però ricordare che è solo il sette per cento di quel che si avrebbe con una riunione in presenza considerando gli spostamenti necessari e che dal 2012 ad oggi le infrastrutture del Web sono molto più efficienti, come vedremo fra poco.
Poi ci sono le ricerche online. Quelle su Google produrrebbero globalmente 12,542 tonnellate di CO2 al giorno. Che non sono alla fine grandi numeri ma che potrebbero essere ridotti e si operasse anche sui siti stessi troppo spesso male organizzati. Ale Agostini, 47enne fondatore di Avantgrade, con il progetto Karma Metrix ha iniziato a calcolare il loro impatto ambientale. "E' uno strumento che abbiamo lanciato per gioco a giugno, nella giornata dell'ambiente", ricorda. "Si basa su una stima del consumo energetico guardando agli script che usa il sito, il design, le immagini: 23 parametri complessivi. E' tutto misurabile e quindi si può intervenire".

Il regno dei video e il mago cresciuto all'ombra del Gran Sasso.

La questione diventa molto più seria con i video che rappresentano il 60 per cento del traffico Web. Secondo il Think tank francese The Shift Project, produrrebbero 300 milioni di tonnellate di diossido di carbonio l'anno, poco meno dell'uno per cento quindi delle emissioni globali. Appena mezz'ora di Netflix in pratica, darebbe come risultato 1,6 chili di CO2, l'equivalente di guidare in macchina per poco meno di dieci chilometri. Il calcolo è stato fatto su dati del 2015 e messo in discussione da altri: la International Energy Agency, creata in Europa da diversi Paesi inclusa l'Italia durante la crisi energetica degli inizi anni Settanta, contesta le cifre di The Shift Project sostenendo che mezz'ora di Netflix possono arrivare a generare fra i 25 e i 57 grammi di CO2.
Ovviamente la responsabilità è condivisa fra l'apparecchio che viene adoperato per guardare i video e i server che li distribuiscono. La metà circa della corrente è consumata dal televisore, l'altra metà dall'infrastruttura necessaria a servizi come Netflix o YouTube che devono raggiungere i loro utenti nel mondo, rispettivamente 180 milioni di abbonati da una parte e un miliardo e 800 milioni dall'altro.
Anche su Facebook, 2,7 miliardi di frequentatori mensili, i filmati giocano un ruolo essenziale benché diverso rispetto a quello su Netflix, Disney+ o altri servizi simili. Sul social network ogni giorno vengono caricati materiali video, nel 65 per cento dei casi da smartphone, che avranno a fine giornata quattro miliardi di visualizzazioni.
"Il volume è così alto che abbassare il consumo senza abbassare la qualità è un mandato essenziale. Anche perché sulle piattaforme di Facebook è il tipo di traffico che cresce di più", sottolinea Ioannis Katsavounidis mago degli algoritmi e della compressione video. Nato in Grecia nel 1968, parla un italiano perfetto. Lo ha imparato quando conduceva esperimenti sui neutrini nei laboratori del Gran Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). Ha poi fondato startup in Cina, fatto ricerca al California Institute of Technology, è stato preso a calci in patria dal sistema universitario greco, ha rivoluzionato gli algoritmi legati alla compressione video di Netflix, per passare a Facebook nel 2018.
"Il traffico a Capodanno esplode ad esempio e in generale cambia da Paese a Paese", continua Katsavounidis. "News, video degli utenti, eventi live, videochat, pubblicità, stiamo parlando di un universo di contenuti che hanno tempi, durata, funzione e pubblico differenti. Ci sono video che vengono guardati miliardi di volte e alcuni che non vedrà mai nessuno. E allora l'energia va indirizzata dove serve. Stiamo lavorando sull'intelligenza artificiale per sapere su quali vanno orientate le risorse maggiori perché rischiano di diventare virali".
Per Netflix il problema maggiore è occupare meno banda mantenendo la qualità e la risoluzione. Lo streaming diventa così più fluido e costante anche se la connessione dell'abbonato non è fra le migliori, ma si consuma di più perché serve più potenza di calcolo per comprimere film e serie tv. Sui volumi di Facebook un'operazione del genere non è possibile, assorbirebbe troppo. Così Katsavounidis e i suoi vorrebbero ora inserire nei data center di Facebook dei chip dedicati, un circuito integrato che appartiene alla famiglia Asic, che hanno sui video prestazioni alte ma richiedono meno corrente. "Rispetto ad una normale processore, più duttile, potente e quindi con consumi maggiori, con la stessa energia gestiremo dati con volumi che sono cento volte più alti. E stiamo mettendo in piedi un sistema che analizza il flusso video e lo comprime arrivando al 25 per cento di risparmio di bit senza aumentare il consumo energetico", conclude il ricercatore greco.
Secondo lui oggi si potrebbe abbattere il 30 per cento del consumo di un sito quando viene gestito con attenzione senza rinunciare a nulla: "Spesso è una questione di ordine, tante tecnologie vecchie, script soprattutto dei quali nessuno si ricorda e che non fanno altri che aumentare i consumi".

La deriva dei videogame.

Bisognerà fare qualcosa del genere anche nel campo dei videogame. All'Università della California hanno scoperto che i giocatori statunitensi utilizzano il 2,4 per cento dell'elettricità domestica, più di quanto assorbono congelatori o lavatrici. Hanno anche dimostrato che i giochi in streaming consumano anche di più energia, quindi le emissioni di carbonio potrebbero aumentare se si passa al modello dove il lavoro di calcolo viene svolto da remoto anziché su singole console, come accade con Stadia di Google, Luna di Amazon o Game Pass di Microsoft.

I data center, il vento e il sole.

Tutte queste operazioni vengono fatte nei data center, ovvero sul cloud, gradi strutture che ospitano migliaia di computer che svolgono la funzione di server, di nodo. Ogni volta che avviamo un film di Netflix, facciamo una ricerca, apriamo una video riunione, consultiamo un social network o accediamo ad una partita di Fortnite o Among Us, da qualche parte un server gestisce le nostre richieste e risponde in una frazione di secondo.
Facebook ha i suoi data center, Netflix invece si appoggia a quelli di Amazon che in questo settore ha la fetta di mercato maggiore seguita da Microsoft e da Google. Sono circa otto milioni i centri dati attivi nel mondo. Ma le stime variano secondo la definizione stessa di data center, se si considerano solo quelli dei colossi sopra citati si contano nell'ordine delle centinaia. Da questi centri sparsi nel mondo arrivano tutti i servizi online che usiamo quotidianamente, mail, chat, social network. Sono i punti nevralgici del Web, e assorbono fra l'uno e il due cento dell'energia prodotta nel mondo.
"Dal 2010 i data center hanno visto aumentare la loro capacità di calcolo del 550 per cento, ma il consumo è cresciuto di appena del sei per cento", racconta Michael Tarrell, a capo della Energy Market Strategy di Google. Quarant'anni, figlio e nipote di gestori di miniere di carbone, geologo di formazione, ha lavorato nell'amministrazione Clinton come avvocato nel campo energetico. Per poi finire a disegnare la strategia di Google per abbattere i consumi dei server privilegiando la fornitura di rinnovabili. "Nel complesso Google, in ogni sua parte compresi gli uffici, assorbe energia pari a due metropoli della stazza di San Francisco messe assieme", prosegue Tarrell. "Grazie all'intelligenza artificiale riusciamo ad ottimizzare i processi arrivando ad una riduzione dei consumi del 30 per cento, specie per quel che riguarda i centri dati. Molte richieste legate ai nostri servizi online non devono avere una risposta immediata, certi compiti quindi possono essere svolti non in orari di picco e magari quando gli algoritmi hanno previsto che avremo la fornitura di energie rinnovabili".

Un futuro a batterie.

I problemi alla fine, anche se su scala differente, sono gli stessi di chiunque voglia tentare di usare l'energia pulita. Generata grazie a sole e vento, può esser prodotta con certe condizioni meteorologiche e quasi mai in maniera continuativa. Diventa quindi fondamentale l'impiego delle batterie per immagazzinarla e l'avere dei modelli matematici accurati che sappiano quando e dove ci sarà più di bisogno di potenza di calcolo e quindi di corrente. Quella delle batterie, non a caso, è una questione strategica per i giganti della tecnologia così come i sistemi di climatizzazione per mantenere la temperatura bassa nei data center. Microsoft, ad esempio, ha eliminato gli impianti di climatizzazione, consumano la metà della corrente totale, sfruttando un sistema di raffreddamento ad acqua fatta evaporare dal calore stesso dei server.
"Per i nostri data center di alcune zone centrali degli Stati Uniti, stiamo ora incrociando le previsioni meteo con le informazione legate a tutti i parametri di funzionamento dei centri dati", spiega Tarrell. "Li gestiamo così in maniera predittiva, per usare il più possibile la fornitura elettrica che viene dall'eolico. E' il bello della tecnologia: arrivi a soluzioni che sono decisamente meglio di quel che rimpiazzano".
Perché il processore si è tinto di verde, suo malgrado. Anche i processori dei nostri computer tendono ormai al verde. Lo fanno perché devono garantire un'autonomia maggiore delle batterie nei portatili e fare in modo che i pc da tavolo non si trasformino in una stufa elettrica. Di nuovo il calcolo è puramente economico: avere questo tipo di caratteristiche significa offrire al mercato modelli più seducenti.
"Resta il fatto che abbiamo aumentato l'efficienza di 31 volte rispetto al 2014", snocciola Mark Papermaster, vicepresidente e chief technology officer della Amd, multinazionale americana che produce chip diretta concorrente della Intel. Papermaster, classe 1961, ha lavorato alla Ibm, Cisco, Apple cominciando la sua carriera nella Silicon Valley 32 anni fa.
"In sei anni abbiamo ridotto dell'80 per cento il tempo medio di calcolo per svolgere un determinato compito, ottenendo una riduzione dell'84 per cento del consumo di energia", continua Papermaster. Al punto che l'Amd sostiene che se 50 mila portatili del 2014 fossero aggiornati con la tecnologia del 2020, si eviterebbero emissioni pari a 320 mila chili di carbonio l'anno. Calcolo che ovviamente combacia con il marketing, ma che i processori abbiano fatto passi avanti sensibili nel risparmio energetico non è in discussione. Per una volta quindi si tratta di pubblicità non ingannevole.
"Le faccio un esempio ancora più concreto", prosegue Mark Papermaster. "Immagini di dover viaggiare dall'Italia agli Stati Uniti con un volo transcontinentale. Per come stiamo progettando e realizzando i processori Ryzen, le batterie del portatile può arrivare all'intera durata del viaggio. Certo, dipende dell'uso, ma le capacità sono raddoppiate in appena una generazione: da quella del 2019 a quella del 2020. Non è poco, considerando che ormai i processori sono installati ovunque e, come il resto della tecnologia, si stanno muovendo verso la una maggiore sostenibilità".
Il filosofo dei sistemi complessi, l'impero dei dati e l'eredità di Thomas Edison. General manager di Microsoft, dove si occupa di sostenibilità e delle politiche energetiche della multinazionale americana, inclusa l'acquisizione di terreni dove installare data center e gli accordi con i fornitori di energia per farli funzionare, Brian Janous è convinto che l'unico paragone storico possibile con quel che sta accedendo è con la seconda metà dell'Ottocento. "Le infrastrutture del cloud, che permette di offrire quella miriade di servizi che compongono la nostra società digitale, si stanno sviluppando così come si sviluppò il settore dell'energia elettrica oltre 120 anni fa".
Ha 43 anni, tre figli ed è laureato in economia, con una tesi sulla finanza, e in filosofia. La sua passione sono i sistemi complessi e le idee che li hanno fatti fiorire. "I data center sono come le centrali elettriche: si tende alla concentrazione per ottimizzare costi e consumi. Elettroni da un lato e protoni dall'altro, ma il concetto di fondo non cambia. Alla fine dell'Ottocento l'elettricità veniva fornita soprattutto alle case private, le singole industrie avevano le proprie fonti e in genere erano caldaie a carbone. Thomas Edison fu il primo, nel 1880, a pensare ad una distribuzione centralizzata per offrirla a tutti a costi più bassi. Oggi stiamo costruendo un'altra rete di distribuzione, dedicata ai dati, aggiungendola a quella elettrica che però sta migrando verso solare ed eolico con un ruolo determinante delle batterie per immagazzinarla e dell'intelligenza artificiale per gestire al meglio consumi, picchi e potenza di calcolo".
I data center fanno parte di una delle grandi infrastrutture contemporanee che si stanno muovendo più rapidamente verso le rinnovabili. Hanno alle spalle colossi come la stessa Microsoft di Brian Janous o la Google di Michael Tarrell o Facebook dove lavora Ioannis Katsavounidis. Da sole queste tre aziende hanno una capitalizzazione di poco più di tremila miliardi di dollari. E viene da chiedersi se prima o poi entreranno direttamente nel mercato dell'energia vista la conoscenza e le tecnologie che stanno sviluppando in questo settore.

Il Web fra cinque anni e il dominio delle Ai.

Nel frattempo, si continua a progettare la tecnologia guardando a software e algoritmi più usati per renderla efficace. E fra cinque anni c'è chi immagina che a dominare tutto sarà l'intelligenza artificiale. "Fra cinque anni avremo computer certo più potenti, ma il cambiamento maggiore sarà l'impiego dell'intelligenza artificiale, delle Ai, a 360 gradi", svela Ronak Singhal, ricercatore al Data Platforms Group di Intel, il maggior produttore di microprocessori al mondo. "Avremo Ai per ottimizzare il trasferimento dei dati, Ai che svolgeranno al meglio il compito richiesto e Ai che ottimizzano il consumo dei pc. Oggi gestiamo la batteria dei portatili con algoritmi così da prolungarne la durata, domani avremo intelligenze artificiali che impareranno in tempo reale come usiamo il computer così da consumare il meno possibile. Saranno piccoli miglioramenti, ma un passo alla volta si farà sentire diventando sostanziali".

La crescita senza fine.

Nel 2010 l'impronta di carbonio di Internet era di 300 milioni di tonnellate di CO2, quel che produrrebbe il far visitare all'intera popolazione italiana l'America, con volo andata e ritorno, per due volte. Oggi quell'impronta si è sestuplicata: è evidente che i miracoli fatti nell'ottimizzazione non bastano. Come Paese il digitale ha esempi virtuosi al suo interno e cadute di stile pesanti, basti pensare all'eliminazione del caricabatterie nella confezione dell'iPhone 12 fatta passare come scelta ambientalista. Ma ancora non riesce a far decrescere i consumi, al massimo li contiene. O, guardando il bicchiere mezzo pieno, fa miracoli nonostante l'aumento di traffico dei dati e dei dispositivi digitali. Stando alla Ericsson il volume di informazioni su rete mobile è cresciuto del 56 per cento e gli oggetti connessi (Iot) sono triplicati. Tutto in un solo anno, l'ultimo. Se si continua così il Web e quel che lo circonda potrebbero presto scalare la classifica superando India e Stati Uniti puntando alla vetta.
"Dispiegare l'intelligenza artificiale in maniera irresponsabile potrebbe essere fatale per la stessa tecnologia", conclude Yoshua Bengio. "Con CodeCarbon ci siamo per ora limitati alla misurazione del software, ma è ovvio che di strada da fare ce ne è ancora tanta". Il Premio Turing 2018 spera che un domani diventi d'obbligo dichiarare quanto consuma un servizio digitale o un data center e quanto CO2 producono. E ovviamente spera anche che CodeCarbon vanga adottato dalle grandi compagnie hi-tech perché si riesca finalmente a sapere il prezzo che il pianeta paga per il nostro magico modo digitale.

Fonte: Repubblica.it
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di Jaime D'Alessandro

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